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Enrico Corradini

L'ora di Tripoli

Treves, Milano, 1911

Si tratta della relazione di un viaggio del giugno-agosto 1911, le cui corrispondenze, pubblicate sul « Il Marzocco» e «L’Idea nazionale, saranno subito »raccolte in volume nel settembre 1911. Il 10 settembre 1911 un trafiletto pubblicato sull’”Illustrazione italiana” con il titolo Corradini a Tripoli annunciava: “L’autore della Patria lontana e della Guerra lontana, E. C. è tornato in questi giorni da un viaggio di tre mesi lungo la costa dell’Africa settentrionale, in Grecia e a Costantinopoli […] Il C. fu nella Tunisia […] percorse poi i porti di Susa, Monastir, Madia, Sfax, da cui si portò a Tripoli. Da Tripoli il CF. passò a Bengasi nella Cirenaica e da Bengasi a Derna; da dove intraprese un viaggio di studio sull’altopiano pirenaico […]. Nella Tripolitania e in Cirenaica […] il C. si è fortemente documentato sopra le condizioni degli interessi italiani e specialmente su quella questione italo-turca che ormai è si’ viva nell’opinione pubblica, e più sarà, sembra, domani. E. C. sta raccogliendo le impressioni e gli studi del suo viaggio per un volume che la casa Treves pubblicherà nel prossimo ottobre sotto il titolo L’ora di Tripoli”.
L’ora di Tripoli è così recensito in «Illustrazione Italiana» del 22 ottobre 1911 a firma “Spectator”:“ palpitante, vibrante, caldo volume che ora è per le mani di tutto il gran pubblico. E.C. come ha detto l’antitripolista Napoleone Colajanni nella sua “Rivista popolare” è un imperialista “sicuro, ardente, che da anni e con costanza sempre ammirevole persegue il proprio ideale”. Corradini ha ben diritto di esultare nel vedere realizzato in così breve tempo e con tanta precisione, rapidità di mezzi e di esecuzione, il suo sogno tripolino” . Il 29/10/1911 ne riparla. E il 5/11/ 1911: « Enrico Corradini può farsi un merito- oggi che l’occupazione della Tripolitania non è più un lontano ideale propugnato da pochi solitarii, ma una realtà voluta e applaudita da tutta la nazione italiana- della sua propaganda per l’impresa di Tripoli.»; si citano anche recensioni apparse nel supplemento letterario del Times del 26 ottobre e The Spectator ( che esprime riserve sul lato politico del testo).
Come ci informa la Prefazione (Firenze, 17 settembre 1911), il “volume è composto d'una conferenza sulla “quistione di Tripoli”, letta nelle principali città d'Italia il Maggio scorso, e di relazioni di viaggio” (p. V) in Cirenaica e in Tripolitania (giugno e agosto), già parzialmente pubblicate nell'“Idea nazionale”. Il libro si inserisce perciò nel clima di preparazione dell'opinione pubblica alla guerra libica, favorito in primo luogo dai nazionalisti, appunto attraverso conferenze, viaggi africani, giornale. La fortuna del nazionalismo è dovuta all'aver intuito questa “funzione naturale” dell'Italia che la spingeva verso Tripoli, il desiderio dell'opinione pubblica talmente concorde da prendere la mano al governo riluttante. Se la scelta non fosse la guerra, “il partito della nazione, il nazionalismo, dovrebbe allora iniziare un'azione estremamente rivoluzionaria, anche contro cose e persone che ora non si nominano” (p. XIX). La conferenza ha per titolo: Proletariato, emigrazione, Tripoli. Territori fertili e produttivi, in specie la Cirenaica, “sono tutta l'eredità che ancora resta per noi italiani, dell'impero che ebbe Roma sulla costa settentrionale dell'Affrica” (p. 6), il resto essendo stato occupato da Francia e Inghilterra. D'altra parte non sussistono problemi di giustizia internazionale, di principio di nazionalità: la Tripolitania non è una nazione, un organismo nazionale vivo, non esiste più con il territorio alcuna “relazione di equità” (p. 12). Non vi è attualmente civiltà, ma stirpi decrepite tornate “in uno stato selvaggio” (p. 13) e tali da suscitare la memoria “di due grandi civiltà, della civiltà cartaginese, e dell'altra che quella vinse e tanto più vastamente dominò e creò: della civiltà romana” (p. 13). La conquista italiana sarebbe un'estensione di civiltà e un beneficio economico per l'Italia e per la Tripolitania. Gli ostacoli interni dell'espansionismo italiano sono stati finora due: il socialismo e il governo. Nel primo caso C. mira a un recupero del proletariato alla causa colonialista, mostrando di questa la maggiore utilità rispetto all'emigrazione: “emigrazione significa il lavoro italiano abbandonato a se stesso per il mondo; mentre conquista di colonie significa il lavoro italiano accompagnato per il mondo dalle altre forze della nazione italiana e dalla nazione stessa” (p. 21). Il governo è succube dei socialisti e della paura della politica estera: il colonialismo sarà anche l'occasione per mutare classe politica. La necessità della conquista dipende inoltre dalla sovrapopolazione italiana, soprattutto nel Mezzogiorno, e dalla concorernza che Libia in mano straniere farebbe al Mezzogiorno. “Verrà tempo in cui anche l'Affrica sarà conquistata alla civiltà” (p. 34) e l'Italia deve cooperare all'evento (secondo l'auspicio che fu anche di Giuseppe Mazzini).
I primi due articoli sono dedicati a L'esempio di Tunisi: l'emigrazione italiana in territorio di conquista francese ha portatto, a seguito della politica di associazione franco-araba, alla proletarizzazione degli italiani. Nelle miniere già scavate dai romani C. sentenzia: “Le ragioni degli antichi imperi sono uniformemente le stesse di quelle degli imperi d'oggi. I romani erano sbarcati duemil'anni fa in Affrica per fare la stessa cosa che ora fanno i francesi” (p. 63). In Tripoli è messa in contrasto la ricchezza potenziale della Tripolitania con il suo stato presente di totale disgregazione (frequenti le comparazioni animali delle popolazioni locali) a causa del dominio turco. Nella stessa Africa settentrionale la Tripolitania rappresenta una “soluzione di continuità” della civiltà e quindi la politica italiana di penetrazione pacifica non ha alcuna ragion d'essere. La coltivazione del deserto riprende il tema della possibile ricchezza della terra (“[...] c'è anche un deserto coltivabile”, p. 93), se coltivata con sistemi adeguati, ignoti ai locali: “Nella stessa annata magra terreni coltivati in Tripolitania da europei hanno dato il doppio d'altri terreni della stessa qualità coltivati da arabi” (p. 96). Il deserto è considerato non un dato geografico, ma un fatto storico, determinato dall'indolenza islamica, sia araba che turca. La grandiosità delle rovine romane testimonia della possibilità di opposti imperialismi. L'art. successivo, Distruzione araba e turca, è tutto nel titolo: ma la polemica è in particolare con la spoliazione procurata dai turchi, che anche per questo devono essere cacciati. Lungo la costa cirenaica (Bengasi) è dapprima una descrizione del viaggio da Tripoli a Bengasi, poi della città e dei suoi dintorni. L'arabo è visto come fermo nell'evoluzione storica dalla pastorizia all'agricoltura, incapace di modificare la natura e di conservare i benefici “di quei popoli, i quali qualche millennio fa portarono in queste regioni la civiltà e la ricchezza” (p. 129) e la prosperità. Continua il viaggio nell'art. seguente per Derna e le colonie italiane: quando s'attraversa Derna, “si trova che quanto è opera dell'uomo, è arabo, è miserevole, è muraccio di fango, è catapecchia; quanto è natura, ha il vigor del tropico” (pp. 138-139). Intorno a Derna è l'Africa che aspetta il lavoro umano che venga a porre in luce i tesori che nasconde. Al termine dell'art. C. descrive la penetrazione italiana (economico-religioso-umanitaria) nelle tre principali città, resa povera dalla sua impossibilità di acquistare terreni e coltivarli e avere infrastrutture adeguate. L'unica eccezione positiva, ma anch'essa inevitabilmente limitata, è quella del Banco di Roma. Di contro è sempre più intensa La penetrazione pacifica degli altri, favorita dai difetti di quella italiana (trauma di Adua, opposizione dei partiti popolari, sostegno all'emigrazione ecc.); solo ora “l'Italia accenna a risollevarsi, e n'è segno il nazionalismo che significa anzitutto coraggio dell'azione nazionale e contro i nemici esterni e contro i nemici interni” (p. 173). Nella Storia turca d'un viaggio italiano è illustrata l'ostilità turca verso la penetrazione italiana e al tempo stesso lo stato di anarchia in cui sono lasciati i territori africani. Sull'altipiano cirenaico. Da Derna a Cirene riprende l'andamento descrittivo, tornando sul tema dell'infecondità storica e non naturale, determinata dai beduini dell'interno: “Il beduino è il prototipo dell'umanità incapace di sviluppo, o, come altrimenti si dice, progresso” (p. 199; si tratta di uno dei vari incisi di antropologia razziale tardopositivitsica), e dal dominio turco, che ha per simbolo un filo del telegrafo cadente. Insieme a questa immagini di degrado giganteggiano le vestigia romane: “Tutto, per così dire, lo scheletro della stupenda amministrazione romana sta ancora nelle solitudini della Cirenaica, dicontro alla capanna e al gregge dell'inerzia araba, dicontro a quel filo di telegrafo, unico istituto dell'Impero Ottomano che ruina” (p. 203). Si tratta di correggere la natura e soprattutto di mutare gli abitanti e il regime. “Il quale compito spetta all'Italia” (p. 206). Il viaggio Sull'altipiano cirenaico. Da Cirene a Bengasi, dal tono a tratti favoloso (anche per il gusto dell'onomastica locale), anche quando (per effetto di verità) trascrice appunti di taccuino, celebra il trionfo della fecondità sotto forma di olivo, selva e acqua. Inoltre il sottosuolo della ragione garantisce zolfo e fosfati. Ciò non significa che siano precipuamente queste le ragioni della necessità della conquista, le quali restano di politica internazionale: “E il nostro ragionamento compiuto e filato è questo: per una ragione di politica internazionale, l'Italia ha bisogno di occupare la Tripolitania; per fortuna, questa è, per lo meno in parte, buon terreno e può esser messa in cultura, e così riuscirà, sotto quest'aspetto, un'ottima colonia di popolamento e potremo avviarvi la nostra emigrazione; ha anche una ricchezza mineraria e sotto questo aspetto la Tripolitania potrà riuscire per l'Italia un'ottima colonia di sfruttamento alla stessa maniera che la Tunisia per la Francia. Colonia di popolamento sta bene, colonia di sfruttamento sta bene; ma la ragione prima e massima è mediterranea e internazionale. / Ciò sia detto per chiarire le nostre idee ai nostri lettori i quali ci senton parlare degli olivi della Cirenaica e delle oasi della Tripolitania. Gli olivi e le oasi debbono attirarci, e metterli in frutto sarà la grande opera nostra di questo secolo, e il frutto sarà la nostra ricompensa. Ma passare il mare sarebbe per noi un dovere, anche se dovesse essere un sacrificio, e questo dovere c'è imposto dagli altri” (pp. 222-223). L'ultimo cap. A tutti è utile l'occupazione di Tripoli argomenta in primo luogo che: “La quistione meridionale è soprattutto una quistione affricana” (p. 227), la risoluzione colonialista della prima preparando la risoluzione della seconda e non viceversa. Inoltre la conquista coloniale può essere un elemento di dinamica spirituale in specie per il sud: come la guerra, può rappresentare una trasformazione morale positiva (energia, creatività ecc.). Tutte le classi hanno interesse alle colonie: la borghesia industriale avrà nuovi sbocchi e una nazione forte che la garantisca internazionalmente (“L'industrialismo moderno (come l'industrialismo antico, del resto) ha per suo grande agente lo stato nazionalista, militare e imperialista”; p. 235). Il proletariato sarà il maggiore beneficiario, perché la nostra “sarà la tipica colonizzazione popolare, o, se più si voglia, proletaria”: maggior lavoro, più alti salari, più vasto territorio per accrescere ed espandere la nazione (p. 238). Anche per il governo sarà favorevole, ponendo termine al quindicennio di politica interna e alle alchimie parlamentari, per dar luogo a un nuovo risorgimento.

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