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Arnaldo Fraccaroli

In Cirenaica con i soldati

Treves, Milano, 1913

È un volume riccamente illustrato (118 foto) che raccoglie le pagine “nate in Libia in un periodo di fervore e di entusiasmo”(p.V), scritte da Fraccaroli, come si legge nella Prefazione, "in nove mesi di guerra [ il primo articolo è del 28 ottobre 1911],da Bengasi e da Derna, fra l’uno e l’altro telegramma ch’io mandavo al "Corriere della sera". Per evidenti motivi di marketing, - che si manifestano chiaramente fra l’altro nelle recensioni apparse a due riprese dell’ "Illustrazione italiana" per promuovere il libro ( 3 agosto e 21 dicembre 1913)-, l’autore, nel raccogliere a brevissima distanza di tempo articoli già pubblicati in giornale, vuole in qualche modo differenziare quelle corrispondenze dal fronte dai brani confluiti nel volume: "in quei telegrammi era la cronaca quotidiana della nostra azione guerresca; in questo libro- sottolinea nella Prefazione- è narrata la vita che nel periodo della prima conquista si è vissuto coi nostri soldati.” (p.X); e ancora, “ Questo libro non racconta […] la guerra. La guerra l’hanno scritta e la vanno scrivendo i nostri soldati mesi di guerra in questo libro è narrata la vita che nel periodo della prima conquista si è vissuto, coi nostri no scrivendo i nostri soldati e i nostri marinai in pagine di gloria. Ed è un poema epico […] Noi giornalisti non abbiamo fatto che annotarli in telegrammi frettolosi e tumultuanti di visioni e di ricordi, spesso con gli orecchi ancora percossi dal rombare della battaglia e gli occhi rossi di commozione e di polvere […] . Questo libro non racconta la storia della guerra, spezzettata giorno per giorno nei dispacci; racconta la vita che si è vissuta e si vive ancora accanto alla guerra, la piccola vita quotidiana, che si illumina a volte di bagliori d’entusiasmo” pp. V-VI.). L’accentuazione dell’aspetto bellico è supportata dall’impostazione della copertina: la foto a piena pagina di tre artiglieri intorno a un cannone, in primo piano, benché di fatto gli argomenti trattati nel volume, così come le altre 118 fotografie, siano per lo più di genere folkloristico o storico-geografico. I soldati sono relegati sullo sfondo o comunque visti solo nelle loro funzioni "civili" di, per così dire, "genio costruttori": " Sembra che gli artiglieri si siano assunti l’incarico di dimostrare la fertilità del suolo cirenaico. Dove essi postano le loro batterie nascono subito orti e giardini […] Spiano il primo sorgere dell’insalatina che arrischia timida le sue foglie tenerelle, seguono gelosi lo sbocciare dei fiori"(p.24); " I nostri soldati dovettero […] cominciare la loro conquista […] dal fare le strade.[…] Le eterne strade consolari che i latini aprivano per farvi passare la civiltà di Roma hanno trovato delle sorelle […] Mirabile rete di comunicazioni che basterebbe da sola a dar gloria e valore a un esercito per la ostinata tenacia con cui venne foggiata"(p.99).Il volume è organizzato in due parti, che prendono il nome dalle due città di riferimento Bengasi e Derna: nella prima parte, Bengasi, si mettono in scena episodi di vita cittadina ( "Bengasi si affaccia in riva al mare in una gaia e varia e pittoresca moltitudine di case."p.38), mentre nella seconda, Derna, si tratteggia anche il paesaggio cirenaico ( "Derna è la città delle palme.[…] Quando si arriva dal mare la città non si vede. Si vede invece una grande distesa verde e folta, una moltitudine di alti alberi chiomati: una foresta, un giardino", p.105; "Le zàuie senussite sono piccole case sparse in tutto l’interno della Cirenaica: sorgono isolate a distanze a volte grandissime, hanno intorno dei giardini, molto bestiame […] molto orzo", p.119). Concludono il libro due capitoli, Al campo turco e L’avanzata decisiva che travalicano l’ arco cronologico consueto per questo genere di testi ( settembre-ottobre 1911- ottobre 1912) e si estendono al periodo post-bellico, un curioso momento in cui "la pace è firmata […]il trattato è stato ratificato dai due governi […] ma il nemico è ancora al suo posto dinanzi a noi, e noi siamo sempre al nostro"(p.219). Il protagonista di questo ultimo scorcio del racconto diventa il mitico comandante turco Enver Bey, di cui Fraccaroli tenta di sminuire la fama sia attraverso un riduttivo ritratto fisico, ( "Enver bey ha una figura simpatica: piccolo, ma proporzionato […] baffetti arricciati in su, a ricordare l’elegante addetto d’ambasciata" p.227), sia attraverso un riduttivo ritratto morale: "restandogli insieme alcune ore si capisce la sua opera di adescamento esercitata sugli arabi: è un tipo espansivo, di una cordialità un po’ a posa come la sua figura e la sua voce, perché egli da sempre un poco l’impressione che si guardi e si ascolti, ma è colto, abilissimo nel dire e nel tacere: è un tipo che avvicina" (p.227). Il risultato di questo che appare come un pasticcio diplomatico, è una sorta di Vittoria mutilata ante litteram: " Ringraziando Dio, la politica può fare quello che vuole e può seguire le vie che crede, ma il soldato italiano sa quel che deve fare, sempre"(p.239).Oltre e accanto alla pubblicità per l’esercito (e per i corrispondenti di guerra), Fraccaroli, come i colleghi Castellini o Corradini, fonda il suo punto di osservazione su una serie di idee divenute rapidamente luoghi comuni: la "giovinezza" della nuova Italia( "Tutto è giovine: l’Italia che ci guida, la terra che occupiamo, la gesta che si compie, i soldati, noi"p.VI ""La caratteristica del campo è una grande giovinezza. Tutti i soldati sono giovani, anche gli ufficiali di cinquant’anni"p.20); la decadenza subita dalla Libia sotto il dominio turco e la conseguente rinascita sotto il dominio italiano ( "Comincia da questo periodo la rinascita cirenaica. Ed è storia nostra"p.X); l’orgoglio per il retaggio della romanità ( "E noi cammineremo nel solco di Roma"p.104); la sicurezza della futura fertilità del deserto (" la terra è ancora, qui, ineusaribile e doviziosa donatrice di messi e di frutti, anche malgrado i miserevoli primordiali sistemi agricoli di questa gente" (p.102), ecc…La particolarità della scrittura di Fraccaroli è quella di condire tutte queste considerazioni con una più evidente nota di razzismo, insaporita talvolta da un’ acre, scontata, ironia: i turchi sono infidi, incapaci nell’amministrazione civile, vigliacchi nel dare battaglia, gli arabi sono sporchi, ladri, astuti, fatalisti e oziosi: "l’arabo è abituato a procedere con molta calma: è per questo che la sua civiltà è rimasta indietro di un migliaio d’anni"(p.8) "la fatica, […] lo disturba. L’ozio lo diverte. Quando un arabo vuol darsi alla pazza gioia si accoscia vicino a un muro, sotto una palma e sta lì per delle ore senza far nulla, senza dir nulla, guardando tranquillamente intorno, come se nella vita non dovesse essere che uno spettatore"(p.10).; "L’arabo, che pure è molto scaltro e molto furbo- ha la scaltrezza e la furberia sorniona del contadino, frutto della diffidenza- è in parecchie cose un fanciullo"(p.52); "C’è qui della gente sporchissima, che conserva gelosamente sul barracano e sulla taghìa dei poemi di luridume, che ha nel viso e nelle mani la affermazione eloquente della propria profondissima avversione all’acqua"(p.55). Si arriva così all’affermazione gnomica: " L’arabo è come la donna: ha la fierezza della propria sottomissione[…]. Obbedisce, ma vuole conoscere una grande forza in chi lo comanda. Vuol sentirsi guidato da mani di ferro."(p.85). Da tutto questo l’autore fa derivare il "fardello dell’uomo bianco" di kipliniana memoria: " Forse il nostro intervento salverà la nuova generazione [ di arabi libici], la muterà. In altri paesi la dormiente anima araba di è destata al contatto della gente d’Europa. I ragazzi di oggi crescono […] con la visione di un nuovo popolo [ gli Italiani] audace e giovine che vuole e sa di volere, p.116).
I fremiti dannunziani comuni a tutta una generazione si traducono qui in citazioni esplicite trascritte su un duplice registro, eroico, da un lato, come nella conquista della Berca e di Sidi Daùd ("che riappare prodigiosa nell’impeto travolgente, riappare come nella fremente evocazione dannunziana con "…il selvaggio anelito, la gota/che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,/ i polsi tra le razze della rota,// le spalle che sollevano la cassa/ e la portano, l’ordine del fuoco,/ la mira, il primo colpo nella massa// nemica, il suolo raso, l’urlo roco/ delle strozze riarse ad ogni schiera/ abbattuta, l’allegro ardor del gioco…" , p.5) o nella trascrizione su un locale di mensa del "grido nostalgico e augurale della canzone dannunziana: "O Senato/ veneto! O prisca Libertà del Mare!" (p.63);. ironico, dall’altro lato, nel rimando ironico alla "Canzone di Garibaldi": "La poesia fra i giornalisti alla guerra è sempre stata un grande alimento. A Bengasi e a Derna ha imperversato e fiorisce talvolta tuttavia un collega […] grande declamatore di poesie dannunziane […]. Egli ha un debole marcatissimo per la "Canzone di Garibaldi, anche perché è l’unica che ricordi a memoria. […] La canzone dannunziana è meravigliosa, ma la ripetizione minacciava di diventare tragica.[…] Si arrivò al punto di alzarci tutti in atteggiamento di fuga appena l’amico intonava: "O Verità, cinta di quercia…" Adesso, quando si vuol chiudere una lunga discussione noiosa o si vuol dare il segno della partenza o si vuole mandar via qualcuno si urla a gran voce: " La "Canzone di Garibaldi"! (pp.179-180). Un’aspirazione all’umorismo, spesso frustrata dai risultati, si insinua, del resto, in tutto il volume: si pensi ad esempio all’autopromozione della categoria dei "giornalisti di guerra" nell’omonimo capitolo: un divertente resoconto di disavventure quotidiane, dalla conquista di un alloggio alla lotta per il cibo, che si conclude con l’affermazione che, " È sempre una bella soddisfazione, sbarcando in qualche paese conquistato, poter dire con l’intonazione di Amleto principe di Danimarca dinanzi al cranio del povero Yorick: - Mangiare, o non mangiare' Dormire, o non dormire' Ecco il problema!"(p.175). Umoristici vorrebbero essere anche l’elenco delle assurde invenzioni dei soldati negli accampamenti( pp.21-22) o il modo in cui è tratteggiata la figurina del piccolo servo arabo ( Il mio servo Alì,) che "pur essendo un arabetto alto un metro, taghìa compresa […] rappresenta nientemeno che l’arabo di domani […]. Il mio piccolo Alì è dunque un simbolo. Se lo sapesse si laverebbe di più"(p.52); e di gradino in gradino Fraccaroli, nella sua ansia di accattivarsi i lettori divertendoli, arriva fino all’inserimento di vere e proprie "cartoline del pubblico", come quella su Mohàmed che si ubriaca, pur restando un buon mussulmano, perché beve solo quando Allah dorme (p.12) o sul Ramadan ( "Ramadan è quella cosa/ che vien dopo la vigilia/ se qualcuno è di Sivilia/ non c’è dubbio è uno spagnol", p.180). Non mancano, per contrasto, episodi patetici, come quello dell’ascaro che, assente dalla battaglia del 17 settembre presso Derna, veglia poi tutta la notte e tutto il giorno seguente il suo ufficiale, il maggiore Muzii, che nel morire aveva fatto il suo nome: " e parve che dalle labbra esangui dell’ufficiale suo morto aspettasse la parola che non aveva udito, l’ultimo comando che non aveva potuto obbedire" (p.218).

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