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Ezio Maria Gray

La bella guerra

Bemporad, Firenze, 1912

Il volume di Gray, benché pubblicato immediatamente a ridosso della guerra italo-turca, si discosta dal genere "diario dal fronte" tanto in voga e si presenta piuttosto come un insieme di riflessioni di stampo nazionalista e di considerazioni socio-economico-militari inframezzate da brevi scorci narrativi, per lo più in prima persona, inseriti con la funzione di exempla. In tutto sono 100 pagine, organizzate in 4 capitoli: La nostra ferocia; La battaglia nell’oasi; Gli uomini e i condottieri; Il bilancio della guerra. Lo stile è estremamente fiorito, irto di metafore, ma anche denso di luoghi comuni, la bontà degli italiani, l’eroismo della razza ( “la forza dell’anima che è in tutta la nostra stirpe”, p.79), la spensieratezza latina (“Giannatasio […] era il filosofo della gaiezza”, si dice di un eroico soldato, p.71), la fermezza delle “madri piangenti” che “sanno bene alleare il sentimento patrio all’adorazione materna” (p.67), e, in un empito tutto pascoliano, il potere unificante e pacificatore del patriottismo: "gli ansanti petti dei superstiti intonarono i canti della razza. Noi li udimmo. Furono le canzoni delle campagne lombarde, le canzoni delle colline toscane, dei vigneti del Piemonte e di Sicilia"p.24; “voi pensate generalmente ad un esercito composto anonimamente di proletari.[…] Errore. Vi sono laggiù i volontari […] vi erano i richiamati di ogni condizione sociale[…] Io ho incontrato degli ingegneri che portavano il gallone di caporale: ho salutato degli avvocati […] che davano il grasso al fucile”(p. 65); “vedemmo ufficiali e soldati abbracciarsi fraternamente la sera, dopo aver ancora una volta legato la vittoria al carro d’Italia”( p. 83); “ I richiamati sovversivi di Romagna […] ‘Quando torneremo- mi dissero […]- riprenderemo le lotte dei circoli e dei partiti, ma qui per ora non c’è più né repubblica né socialismo: qui c’è la patria, c’è la bandiera italiana in pericolo e noi la difenderemo’”(pp.98-99) .L’attenzione di Gray si concentra, anzitutto, su alcuni personaggi-chiave, i cui ritratti si alternano con alcune vere e proprie parabole della italianità. Il primo personaggio evocato alla ribalta è anch’esso una sorta di luogo comune della conquista di Tripoli: si tratta dello stesso contrammiraglio Umberto Cagni , eroe del primo sbarco dei marinai italiani, cantato da D’Annunzio in una delle Canzoni delle gesta d’oltremare, apparsa sul "Corriere della sera" il 24 dicembre 1911, e dedicatario della Conquista di Tripoli- Lettere dalla guerra,( Milano, Treves, 1912) di Enrico Corradini (" Al contrammiraglio Umberto Cagni, per la sua gloria di Tripoli e per l’avvenire"). Altro protagonista della conquista tripolina è, nelle pagine di Gray, Gustavo Fara, il "duce ferrigno"" che tutto il giorno resiste testardamente con pochi uomini votati al massacro sull’altura di Henni nel corso della sanguinosa battaglia di Sciata Sciat, ( "In quella selva viva di uomini era stato tutto il giorno la quercia più antica che dà l’esempio del non frangersi per la bufera."p.22). Nel terzo capitolo, poi, sarà la volta del "generale intendente IrnerioGazzola", "di corpo giovane, di mente agile, disprezzatore di lungaggini, fermo nel volere"(p. 57).
Mentre i "santini" dei vari alti gradi dell’esercito sono appiattiti nella dimensione agiografica di una foto ufficiale, le "parabole" sono costruite a contrasto: alla ingenua bontà degli italiani corrisponde la "perfidia turca": il cavas del consolato tedesco che uccide un artigliere, il "piccolo fantasma nero" di un "fanciullo dissimulatore" che, beneficato dai soldati, tenta di uccidere un ufficiale, le "donne discinte che dietro la carogna di un cammello felinamente sceglievano con occhi arsi la vittima", ripagandoci "il pane che le aveva sfamate"(p. 21). L’acme dell’orrore è il raccapricciante episodio, abbondantemente sfruttato dalla propaganda ( vedi E. Castellini, Nelle trincee di Tripoli, Bologna, Zanichelli, 1912, p. 164 ) e ripreso perfino da Pascoli nella Notte di Natale, dei bersaglieri torturati e uccisi nell’oasi, "sepolti fino al collo nella sabbia già inzuppata del loro sangue.[…] e furono cuciti gli occhi che avevan veduto troppo fughe nemiche, e furon mozzate le lingue che avevan gridato troppe volte Savoia! E inchiodate le braccia fortissime, e sfigurato il bel volto italiano"(p. 26). Il secondo brano, La battaglia dell’oasi, è costruito, principalmente, con lo scopo di contrastare le critiche alla condotta dell’impresa coloniale, lenta e limitata alle coste. A tal fine, come avverrà anche nella seconda parte del terzo capitolo( “i nostri soldati sono sbarcati a Tripoli ed hanno trovato… che cosa' L’oasi e il deserto. Il deserto li ha sconcertati […]. L’oasi invece li ha irritati. […] Raramente un esercito si è trovato in peggiori condizioni di terreno” e così via, pp. 63-81), si enfatizzano le difficoltà logistiche di conquista delle oasi, veri labirinti di viali, pozzi, muri, case immersi nel "disordine violento, inestricabile" di una vegetazione fittissima : "prendete un giardino, un folto giardino, il parco più folto che abbiate in memoria. […] prendete questa preparazione di foresta vergine, chiudetene l’accesso per dieci anni, per venti anni, lasciate che […] la madreselva abbracci l’ulivo, che le cortine di edera tolgano il sole alle canne, che i rami si contorcano intorno a tronchi che non sono neppure i loro […] che i viali stessi diventino una selva […] che le ortiche gareggino con gli aculei dei fichi d’India:[…] poi pensate che vi sia in ogni macchia un pericolo, un’insidia preordinata, calcolate che vi si spari, che vi si assalga […] che ogni tronco sia un nemico, che ogni fratta sia un fucile, che ogni passo sia la morte.[…] questa è ancora una debolissima visione dell’oasi di Tripoli:"(p. 32). Questa enfasi descrittiva si sposta, nel proseguo del brano, su un preciso fatto d’arme, una ricognizione operata, fra gli altri, dall’ufficiale Ezio Maria Gray, di stanza "nelle trincee del 63º fucilieri tra Hamidiè e Sciara-El-Zaviet". Ben cinque pagine sono dedicate alla rappresentazione dello scenario dello scontro con le truppe arabo-turche, uno scenario stranamente decadente, quasi dannunziano negli ambienti e negli arredi, elencati con la precisione di un rigattiere: "raggiungemmo di corsa una grande villa deserta, la esplorammo […] la villa era come contorta.[…] Tutto era devastazione, là dentro, sotto un triste tubare di tortore cinerine. Chiome di ulivi costellate di frutti coprivano il suolo[…] Schiantati- anche- erano i begli alberi cupi di aranci e per gli infranti rami ne usciva d’intorno un profumo cos’ acre che vinceva quello già forte delle bionde gaggie.[…]. La villa era- ormai- un corpo dalle mille ferite. Slabbrata, scalcinata, sforacchiata, cadente da un lato.[…] Nell’interno, […] la stanza delle donne riconoscibile […] dall’alta alcova di legno […]. In un canto un antico cassone di quercia ricoperto di ottone in lamiera traforata e imborchiata. L’aprii e mi investì la vampata di quel profumo indefinito che è su tutte le cose e su tutte le persone d’Oriente.[…] In un ripostiglio laterale, quattro o cinque corone di passatempo, grani di madreperla, di ambra e di pietre strane riunite in un filo d’oro in ordine di trentatré […]. Ed ancora vi era, in pietra cilestrina come la turchese, una piccola mano dalle dita rinchiuse, la "mano di Fatima" che adorna ogni gioiello di Oriente, uguale questa in tutto a quella […] cucita per pensiero di tutela da una mano di donna, sopra il fez purpureo di un giovinetto giaciuto morto nella fatale conca di Henni. Ed ancora una pietra verde incisa, e un Corano bisunto e ritagli di stoffe dorate e chicchi di melica e noccioli di datteri […] e sul fondo, strano, nuovo, fiammante un cuscino stretto e lungo in velluto viola, ricamato d’oro e d’argento e foderato in seta bianca"(pp. 36-40). A un tratto il crepitio dei proiettili annuncia l’arrivo di nemici invisibili, "biechi, ripugnanti di sudiciume, silenziosi e agili come serpi, intenti nel mirare, pronti nel ricaricare, cauti della loro vita solo in quanto la loro vita potesse recare tra noi una maggiore morte"(pp. 41-42): Gray prosegue le sue pose dannunziane con l’enunciazione di massime pseudo-filosofiche( " l’ambiguità della morte e della vita alitava nell’aria: il pericolo era ovunque e la salvezza in nessun luogo"; "eravamo senza merito il bersaglio stupido di assassini impunibili" "la guerra dilaziona anche la pietà più urgente"), e asserti eroici(" L’anima vide la morte calare da una gloria ardente di nuvole e urlò perdutamente per lo splendore che le si offuscava davanti"; "porre-avremmo voluto- il nostro cuore frenetico contro il suo volto impietrito, ma il rischio ci flagellò e ci risospinse" "quel cadavere […] fu come una gran bandiera sventolata dinanzi per la vendetta" (pp. 44-45). Né manca, accanto a tanti episodi di furore italico, anche il racconto edificante del salvataggio della "bimba nera, rannicchiata in un canto, accanita sopra un tozzo di pane ammuffito" che passa di braccio in braccio e che alla fine della giornata verrà amorevolmente accolta dal tenente che aveva guidato l’assalto.
Curiosamente vicina a certe descrizioni marinettiane della battaglia di Tripoli è, invece, la personificazione della mitragliatrice, che "leggera ed agile […] è venuta a sporgere dalla feritoia": "un raggio di sole le saltella sul lungo viso e sembra che l’arma lucente sorrida di un malizioso sorriso dalla piccola bocca bruna. Sorride, ma fate che un gruppo di bianchi sciamma ondeggi laggiù sulla strada […] e – vedrete- la piccola sgranchirà le sue membra di bronzo, leverà la sua voce chioccia di motore perfetto, spazzerà inesorabile qualunque forza nemica"(p. 34).
Il bilancio della guerra, steso nel quarto capitolo, non può essere dunque che positivo: al di là dei lutti che ha provocato, la guerra infatti, ha aperto l’accesso ad una regione “pronta a tramutarsi in giardino”: “Le palme, gli ulivi, le granaglie faranno dell’oasi una nuova provincia sicula”, afferma con sicurezza di testimone diretto Gray, (“chiusi i libri e dimenticai gli scrittori anche se essi mi eran venuti innanzi con la serietà di Enrico Corradini e di Bevione, con la freschezza entusiastica di Beltramelli e di Tumiati, con la precoce e salda dottrina di Castellini”p. 88), volutamente omettendo di ricordare che proprio da quella provincia sicula gli italiani emigravano in cerca di migliori condizioni di vita. Ma è soprattutto la“bellezza educativa di questa guerra”, “necessaria e civile”, il tema caro all’autore: la guerra come incubatrice del “senso collettivo della razza italiana che ci può fare tutti uniti” e che farà sventolare in faccia al nemico, a qualunque nemico di oggi e di domani, il nostro motto, alto trapunto in una corona chiusa di quercia […] Per la fortuna sola d’Italia!”

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