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Il Corriere della Sera

Guglielmo Emanuel

Le notti di Cairo

Martedì, 27 febbraio 1912- Anno 37- Num.58, pp 3

. Si tratta di un articolo di costume che parte dall’analisi del fenomeno turistico delle "notti impure" al Cairo ( "È un’industria regolarmente organizzata per la perfetta istruzione del turista curioso"). Peraltro, al di là degli aspetti artificiali, da messa in scena "ad uso e consumo del forestiero ingenuo", Emanuel riconosce che lo "lo spettacolo della putredine è genuino" e nelle notti del Cairo "par di sentire nel soffio caldo del klamsin un alito di Gomorra.". "Generalmente- denuncia il giornalista- si ha ancora in Europa un concetto piacevolmente romantico dell’Oriente; ma è falso. In realtà l’Oriente è come un accampamento fastoso piantato su un immondezzaio". Enunciato questo assioma, Emanuel assembla una sequela di immagini di "atroce putrefazione", quasi rabelaisiane nella loro grandiosità: le strade sono cloache da cui emana un "veemente miasma", "ci vanno a finire, a triturarsi a impastarsi in una patina untuosa e lercia […] tutti i detriti dei fondachi, tutti i rifiuti delle case, le risciacquature, le lordure e gli avanzi di un colossale pasto d’uomini e di bestie". "Gli asinai, i facchini e i venditori ambulanti, tutta la minuta plebe che mangia i suoi modesti pasti in pied, stretta attorno alle bettole all’aria aperta, popola a notte gli equivoci caffè e le losche straducce di quell’ignobile laberinto che si chiama Mercato del Pesce ed è piuttosto un mercato di carne umana". Secondo il giornalista, tutti gli arabi anche i più poveri cercano nelle "orge notturne" un compenso alle difficoltà della vita diurna ed è nella notte che "comincia la ferie dell’arabo", che ha del piacere ( "naturalmente", chiosa Emanuel) "una concezione primitiva: un ozio cullato di nenie, eccitato da barbare danze lascive, coronato di equivoche lussurie". Questa ricerca adolescenziale di "facile depravazione" lo porta ai café-chantants descritti nell’articolo con una ironia quasi affettuosa:"Ci ho ritrovato le tracce della nostra tramontata popolarità in Egitto in quella decorazione murale: nei ritratti dei reali e nelle pitture del caro e vecchio "Duilio" e della "Lepanto", che m’hanno ringiovanito di vent’anni e mi hanno intenerito per la fierezza incrollabilr colla quale, in mezzo alla folla turcofila, sventolavano da poppa un’ inverosimile bandiera tricolore […]. Il ritrovarli oggi indenni dopo la tempesta italofoba che si è abbattuta sull’Egitto, dimostra chiaro che al caffè concerto questo pubblico non ci va per fare politica. Ci va invece per vedere la danza del ventre"; "in verità il numero vocale nei cafè-chantantsindigeni è una faccenda eminentemente contegnosa e alquanto soporifera […]. È il ballo del ventre che costituisce l’inesauribile attrazione dello spettacolo". Arrivato a questo punto, il giornalista srotola lentamente davanti al pubblico dei lettori l’immagine della ballerina, bene in carne, vestita di una "sorta di tunica di seta, bianco o ranciata, sino oltre il ginocchio", ornata di oro e gioielli "grevi e vistosi", "oro in capo, al collo, ai fianchi, ai bracci, ai polsi fino alle caviglie". E la figura si mette in moto: "quella decorazione […] s’agita, s’accozza, risuona al ritmo barbarico della "tarabucca" sulla voce stridula della "zummara" mentre la ballerina procede "nella interminabile serie di lenti sussulti e di oscillazioni muscolari". Intanto, altrove, nei vicoli interni del "quartiere del malaffare", dove si snoda il "laberinto infame", tra fumerie di hascisc, basse taverne e "catapecchie fetide", il giornalista svela ben più tragiche visioni: "creature che non hanno più nulla di umano stese su giacigli di stuoia dietro le sbarre di ferro imposte per legge alle finestre terrene, orrendamente simili a belve in gabbia", "atroce serraglio umano" in mostra per una folla "tripudiante e incosciente". A mezzanotte, tutto questo finisce: di tanta luce e animazione restano solo due immagini simboliche, su cui Emanuel chiude l’articolo: una lampada accesa "nell’ultima dimora di un santone ch’ebbe la bizzarra idea di vivere e morire fra la turpitudine " e una mendicante cieca, "accosciata nel pilastro d’una moschea […] tutta ravvolta di cenci neri, col volto pallidissimo, distrutto e le orbite vuote" che "veglia immobile sulla città". "La città viziosa si addormenta, d’un sonno pesante, esalando il suo odore pestilenziale"

articolo di giornale - di costume

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